Non ci crederete eppure ho ricevuto un sacco di ‘lamentele’.
‘Oh, insomma ma dov’è il nuovo post?!?’
Era in viaggio, bloccato alla partenza per cause di forza maggiore: la faringite a manetta di Lorenzo che ci ha tenuto in cattività per una settimana altalenando tra picchi di febbre a 40.2 e apatia post-tachipirina da discesa rapida a 35.4, passando ovviamente per inappetenza costante e conseguente ansia nonnesca per la ciccia persa (mutuata in cambio con un paio di occhiaie fiammanti).
Na ficata insomma.
Quali congiunture peggiori avrebbero potuto peggiorare una tale atmosfera se non 1) IL CICLO 2) LA PIOGGIA BATTENTE 3) IL COMPUTER ROTTO che ha significato impossibilità di scrivere, sfogarsi e stabilire un qualsiasi contatto con il mondo adulto?
Un litigio cazzuto col marito direte voi. E infatti c’è stato pure quello.
Il risultato è stata la meteopatia galoppante (QUANDO LA MAMMA STAVA BENE) e scenate da telefono azzurro per asfissia cerebrale (QUANDO LA MAMMA SBROCCAVA).
Poveri bimbi. Lo dico sempre che sono una mamma migliore quando IO lavoro e LORO vanno all’asilo.
Mettimi chiusa in casa per una settimana e divento la Franzoni.
Comunque una soddisfazione c’è stata, anzi due. Lori ha sconfitto la faringite SENZA ANTIBIOTICO (eh già, a volte succede!). E Kiko non si è contagiato (ancora!).
Il vilipendio che mi sono beccata dalla mia amica Doris per questa astinenza da Amoxicillina/Clavulanico ve lo risparmio.
Anzi ve lo rimando. Perchè mi ha suggerito un post che arriverà a breve.
Oggi invece, ispirata dalla mia amica Ambra che ha comprato il suo vestito da sposa, vi parlo della storia di un abito da sposa che ha dell’allucinante. E come tutte le storie al limite del credibile è semplicemente una storia vera. LA MIA.
Agosto 2006. Lui finalmente, in goppa all’Empire State Building, mi chiede di sposarlo.
E manco a dirlo, lo sappiamo che succede il secondo successivo all’ultima esalazione della ‘I’ di ‘SI’ vero?!?
Che come ogni donna mi trasformo da Adolescente Sognante a Wedding Planner Isterica.
Cioè diciamocelo, lui sta ancora con la lingua roteante per il bacio che ha sancito la solenne promessa, e voi vi siete già girate, avete afferrato il telefono e digitato MAMMA, ripensato a quel posto che vi era piaciuto tanto in tempi non sospetti cercando di ricordarvi il nome dell’organizzatore da contattare, il tutto mentre tenete l’anulare in bella mostra ai giapponesi in fila che applaudono e fanno foto. Ve lo giuro. Ci sta dai, stavo sull’Empire State Building!!!!
Comunque sul suo viso dopo 30 minuti cala il gelo.
E capisce. Capisce che è inutile anche provare a portarla in campo quell’idea dell’aperitivo informale al posto del pranzo, dopo la cerimonia raccolta solo per pochi intimi.
Lui ora sa. E’ consapevole che per i successivi 12 mesi dovrà astenersi da ogni impeto organizzativo e limitarsi a laconici SI – NO quando verrà interpellato, quasi sempre con domande retoriche, che a pensarci berne lo aiuteranno perchè voi sistematicamente insieme al punto interrogativo fornirete anche già la risposta. Insomma sarà chiamato a fare quello che fate voi quando si riunisce con gli amici per parlare di fantacalcio.
Niente. Spegnere il cervello, evadere e indossare una paresi sorridente per rassicurare che si, va tutto bene e vi state divertendo anche voi!
D’altronde non è neanche colpa vostra.
Insomma ma come si può scampare se siamo cresciute ascoltando Biancaneve, Cenerentola e la Bella Addormentata, tutte invariabilmente finite all’altare, felici, contente, aggiungerei immortali (non vissero forse per sempre?), col vestito gonfio, fluente, e sposate all’unisono con lo stesso aristocratico vestito da confetto?!?
Perchè mica crederete che era uno diverso ogni volta? E sennò perchè chiamarlo sempre Principe Azzurro: questo in realtà di mestiere salta di fiaba in fiaba in cerca di Lolite per aggiungerle alla collezione…..poi ci chiediamo perché noi donne veniamo su romantiche e i maschi puttanieri, bah……la storia ha già tutte le risposte alle nostre domande, come diceva la mia professoressa di letteratura!
Lasciando la parentesi di psicologia dell’infanzia.
Messo piede in patria comincia un’organizzazione indefessa, che vi tiene sveglie la notte e di importanza e dimensioni pari solo alla costruzione dei bunker salvavita in caso di allarme nucleare.
E cos’è che c’è in cima alla lista pronto ad essere spuntato come priorità numero uno? Il vestito.
Il mio guaio è che io questo vestito l’avevo praticamente già comprato, e indossato e fatto svolazzare miriadi di volte. Nella mia testa. Da quando ho cominciato a prendere la matita in mano a quando ho avuto gli anni necessari per scegliere di sfogliare casualmente Vogue Sposa dal parrucchiere.
E quando è così sono cazzi…..quasi sempre amari.
E non per disturbare nuovamente la psicologia, ma sul baratro ASPETTATIVE-REALTA’ si potrebbe scrivere un’enciclopedia intera che parte dalle ballerine che ti compra tua madre ignorando che guardi in televisione solo Ken il Guerrero e arriva alla depressione post partum che hai TU come MADRE ma che altri non è che la scoperta dell’enorme bufala ‘E’ DURA MA LORO TI RIPAGANO DI TUTTO’ cui tu hai creduto perché te l’hanno raccontata tutti i messaggi sociali preconfezionati (pubblicità, film, libri, fotografie, canzoni). Sarà pure vero che ti ripagano di tutto…….ma con comode rate, fidati. Ovviamente passando, non dimentichiamolo, per tutti i PERFETTO che hai cercato e alla fine paghi un analista per spiegarti dove sono: l’uomo perfetto, il lavoro perfetto, la vita perfetta etc. etc.
Tornando ai falli senza zucchero.
Quindi, Agosto 2006 proposta. Io a Settembre già avevo ordinato il vestito.
In barba al mio capo di allora, Emi, che mi propinava immaigni di Vera Wang, io la copia perfetta del vestito dei miei sogni la trovo su internet. L’abito è bello, tanto, con una vistosissima ripresa del tulle verso la parte posteriore che ribattezzo subito ‘coda a papera’, ed è pure bucolico…..perchè io intanto ho anche deciso di sposarmi in un borgo in aperta campagna dove forse chiffon e seta stonano un tantino.
Dovevo capirlo subito che non poteva essere LUI, il primo visto, quello giusto? Forse si.
Ma sono ben altri i segni che mi sono riservata di ignorare in seguito.
Chiamo l’atelier e fisso la prova. Ottobre 2006. Meno 11 mesi alla data.
Primo segnale. Mi apre la porta Glenn Close. Bionda, occhio gelido, affascinante più che bella ma soprattutto silenziosa, scrutatrice e ruffiana come un gatto.
Prima minchiata. Convincersi che può semplicemente rimanere Cristina, la commessa del negozio che assomiglia a Glenn Close. E che non bollirà nessun gatto nella pentola alla fine della storia.
Proviamo l’abito. Carino ma ancora non PERFETTO. Non come lo volevo.
E qui comincia una sfilza di modifiche cui qualsiasi novello addetto ai lavori avrebbe detto ‘no, signora, questo è un altro vestito, non si può fare’.
E invece Cristina, alla quale intanto, senza accorgermene, sono arrivata a parlare della mia prima mestruazione, si mette a prendere nota, solerte e ossequiosa senza fare commenti.
Niente più lino ma organza, niente più grigio ma champagne, più tulle e in più veli di due differenti tinte di avorio per creare volume e movimento, due riprese posteriori invece che una e pizzo san gallo aggiunto al corpetto e ai bordi della coda, ovviamente da allungare.
Benissimo. quando ci vediamo? Ad Aprile.
Aprileeeee????????? Ma passeranno mesi prima di Aprile senza che io possa neanche strizzare l’occhio a questa meraviglia e stabilire quella complicità necessaria per sentirci veramente uno parte dell’altra e fare un figurone in chiesa!
Tranquilla, tanto come tutte le spose da qui ad Aprile cambierai taglia tante volte quanto l’umore quindi inutile vedersi prima!
Quindi è così. E’ un arrivederci lungo quanto un addio?!?
Secondo segnale ignorato. E quindi seconda minchiata.
Ad Aprile richiamo, non senza aver provato, pavoneggiato e fatto giravoltare quell’abito sognando ad occhi aperti più o meno con cadenza giornaliera.
Giusto quel tanto da renderlo ancora più astrattamente perfetto e, di conseguenza, concretamente impareggiabile.
La risposta è la seguente. Cristina non c’è più, ha avuto un brutto momento e se n’è andata. Sai come vanno queste cose. Comunque tranquilla, siamo sul pezzo e non devi temere nulla. Solo che con i cambi della guardia ci sono stati alcuni ritardi quindi vediamoci fra un mesetto.
Terzo segnale e terza minchiata. ‘Tranquillo’ a Roma fa SEMPRE una brutta fine! A quest’ora i campanelli d’allarme erano già diventati campane ma io imperterrita mi illudevo di inseguire l’abito perfetto, nonostante le avversità….evidentemente scordandomi che quell’abito, io, non l’avevo praticamente mai visto realizzato!
L’appuntamento con una scusa e con l’altra viene rimandato a Giugno. Il 7 Gugno!
Ora, contate i giorni che passano dal 7 Giugno al 1 Settembre. Pochi. Bene, ora togliete anche quelli che vanno dal primo al 31 Agosto, periodo durante il quale a Roma, TUTTO E’ CHIUSO. Credo che ci si possa permettere solamente di nascere, morire e mangiare. Il resto è in shut down completo, effetto Vanilla Sky quando il bel David Aames si affaccia ad una Time Square spaventosamente deserta. Solo che nel film era un sogno (‘abre los ojos’ infatti il titolo originale) e a Roma è tutto vero. Insomma, in una situazione del genere alla domanda ‘ E se succede qualcosa?’ l’unica risposta possibile è ‘NON DEVE SUCCEDERE NIENTE!’.
E solo che, come diceva Quelo, ‘la risposta è sbajata!’
E infatti.
7 Giugno, ore 16:30, entro nel negozio accompagnata da mia madre ed insieme a lei mi metto ad aspettare che la sarta porti l’abito nel salottino prova. Nell’attesa mia mamma fissa un vestito appeso in bella mostra e si chiede chi sia la coraggiosa che mai indosserà quell’obbrobrio. Arriva la sarta. E tira giù l’obbrobrio invitandomi ad entrare nel camerino.
IO SMETTO DI PARLARE. MI GHIACCIO. Una forza soprannaturale comanda i miei movimenti robotici conducendomi fino alla pedana. La stessa forza mi sveste, mi infila quella ‘cosa’ e mi volta verso lo specchio dove vedo. Vedo un palloncino sgonfiato GIALLO LIMONE E BIANCO LATTE che mi si affloscia sulle curve. IO SEMPRE ZITTA. Mia madre non sa dove guardare, cosa dirmi, cosa fare. Sento delle mani che mi toccano, e smuovono, e girano e la voce contraffatta dallo spillo in bocca della sarta che farnetica le modifiche da fare. Tutte tranne quella necessaria. Buttarlo nel secchio perché QUELLO NON E’ IL MIO VESTITO. Ma io non ho il coraggio di dirlo. Perchè se lo dico diventa vero, e non sono più David Aames nel suo sogno solitario, ma quello sfigurato per sempre che si sveglia nella realtà.
Mentre le orecchie mi si ovattano e la pressione sanguigna mi tinge la faccia di livido va via la luce. Parte qualche timido singhiozzo, allo stesso tempo spaventata e incoraggiata dal buio. Quando l’incubo si riaccende, cercando senza ragione alcuna di adagiarmi meglio la stoffa sul fianco, come un pesce fuori dall’acqua che contro l’evidenza tenta automaticamente di sopravviere al destino respirando aria che lo strozza, mi pungo con uno spillo.
L’ultima cosa che ricordo prima del pianto disperato è il mio dito rosso e le gocce di sangue che macchiano il vestito.
IO VI GIURO CHE TUTTO CIO’ E’ ACCADUTO VERAMENTE!
Mia mamma diventa la voce della mia rabbia, della mia resa, del mio dolore. Comincia a urlare che non metteremo più piede lì dentro e che sarà meglio rivedere i soldi al più presto.
Mi porta fuori, per mano. E con la forza che solo le madri di fronte alla sofferenza di un figlio possono trovare, mi continua a ripetere accarezzandomi ‘che andrà tutto bene’. Prendiamo un taxi trafelate e singhozzanti.
Dritte da Atelier Aimèe per favore, in Via Vittorio Emanuele.
Bussiamo all’Atelier, un vero Atelier, alle 19:30 di un Venerdi pomeriggio. Maria Teresa apre con la naturalezza con cui si accoglie l’ordinazione dell’ultimo caffè prima del week-end e di quella cena importante cui non può assolutamente ritardare.
E vede me, che piango e che non riesco a parlare. E i miei occhi che ripetono esattamente le stesse parole che mia madre ha il fiato di dire: PER FAVORE LEI CI DEVE AIUTARE.
Maria Teresa farà tardi alla sua cena quella sera. Siamo uscite alle 21.00.
Ma mantiene la promessa che mi ha fatto sull’uscio prima di farmi entrare: una sposa NON DEVE piangere così!
In quell’ora e mezza non provo abiti ma vere e propre storie. Che come i sogni hanno un inizio, nell’attimo creativo di stilisti innamorati dell’amore, e una fine, nei corpi caldi di tutte le donne che riempiranno quei modelli, di speranze, di cuore, di anima, di attesa e di futuro. Ma Maria Teresa capisce subito che è inutile cercare. Che è meglio disegnare. Perché la luce che si accende nelle pupille quando cenerentola trova finalmente la sua ‘scarpetta’ la vede solo quando io quell’abito glielo racconto, e non quando indosso.
Sa che sta rischiando. Non c’è il manager. La comanda per un abito su misura è in ritardissimo per il primo Settembre. Il laboratorio a Milano è chiuso.
E sto rischiando anch’io. Di rivedere lo stesso film, ormai definitivamente senza diritto di ulteriore replica.
Ma quel venerdì io di segnale mi ricordo solo il suo sguardo. E non il disagio nel fissarlo. Ma il conforto di essere finalmente arrivata al riparo.
Dopo qualche settimana ho ricevuto la telefonata della Direttrice Italia di Atelier Aimèe.
Che mi ha voluto rinnovare la disponibiltà a venire incontro alle mie richieste nonostante il tempo e la velleità delle modifiche. In via del tutto eccezionale.
Il 30 Agosto io ho misurato il mio vestito per la prima volta.
Credo di aver tremato così forse solo il giorno della Laurea, prima di sentire il voto.
Non ce l’ho fatta a guardarlo subito. Sono entrata e Maria Teresa mi ha fatto preparare nel salottino per la prova. Poi mi ha guardato e mi ha detto: ‘ora esco, chiudo la porta e lo vado a prendere. E se vuoi lo faccio vedere a tua madre qui fuori prima di aprire’.
Io ho ringraziato infinitamente per quell’accortezza. Per quella mediazione emotiva, regalata all’animo fragile di una sposa con la dolcezza con cui si raccoglie un uccellino dalle ali rotte.
E’ andata a prenderlo. Lo ha portato a mia madre.
E poi l’ho sentita piangere. E dire: VALE E’ UN SOGNO….E’ UNA NUVOLA.
La porta si è aperta, ed è finalmente arrivato lui. Dopo un lungo viaggio, lui.
Ci siamo incontrati tardi. Ma non potevamo che essere fatti l’uno per l’altra.
Lascio a voi giudicare.
Io voglio ringraziare Atelier Aimèe per la professionalità, la passione e la gentilezza con cui hanno saputo leccare le mie ferite e riportarmi su, su, su, dove tutte le spose meritano di troneggiare per un giorno nella loro vita.
Voglio abbracciare Ambra e augurarle un incontro più classico col suo abito :-).
E premiare ancora una volta il mio sesto senso.
Perché nonostante tutto, se non fossi passata per il tunnel, non avrei mai visto tanta luce alla fine!
W TUTTE LE SPOSE.
Embe’ dov’è la foto dell’ abito?
E’ il post successivo.
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